Sull'appello per il cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale: risposta alle critiche

Di fronte alla catastrofe che si sta consumando da un mese a questa parte in Palestina e in Israele (quasi 12000 palestinesi uccisi, la cui metà minori; 1200 israeliani uccisi e altri 200 presi in ostaggio), come intellettuali non possiamo più tacere. È questo il messaggio che oltre 4000 colleghe e colleghi di diverse Università italiane, e non, hanno voluto dare sottoscrivendo la petizione nella quale si chiede un immediato cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale.

 

Uno dei mezzi per chiedere questi due basilari principi, di rispetto della vita (dei palestinesi e degli israeliani in ostaggio) e del diritto,  è una mobilitazione nonviolenta, ossia la sospensione dei rapporti con le università israeliane. Confondere il mezzo con il fine è un errore che deve essere corretto. L’interruzione dei rapporti accademici è uno strumento pacifico adottato, su invito della comunità universitaria palestinese, da alcune tra le più importanti organizzazioni accademiche internazionali e appoggiato da intellettuali di spicco, inclusi intellettuali ebrei e israeliani (che solo chi è in malafede può accusare di antisemitismo), per fare pressione sulle istituzioni accademiche israeliane sino a che non porranno fine alla loro complicità pluridecennale con le violazioni dei diritti della popolazione palestinese occupata.

 

In questi ultimi giorni abbiamo letto editoriali critici contro la petizione da noi sottoscritta, caratterizzati da deformazioni e pregiudizi: primo tra tutti il tentativo di rendere invisibile la richiesta di un cessate il fuoco, focalizzandosi pressoché esclusivamente sull’invito ad interrompere i rapporti accademici. Questa selezione ad hoc dei contenuti della petizione è il riflesso di un atteggiamento ideologico che non serve alla discussione sul merito, ma solo a demonizzare le voci accademiche che si stanno opponendo alla barbarie in corso. Un collega, dalle pagine di Rainews24, è arrivato a chiedere la “bonifica” (termine quanto mai sinistro) delle istituzioni universitarie italiane e ad alimentare la conflittualità sociale con toni razzisti, suggerendo che le seconde e le terze generazioni di migranti conoscerebbero un presunto rischio di radicalizzazione. 


Vi sono più di 300 petizioni di associazioni accademiche, della società civile e del mondo della cultura che hanno fatto proprio l'appello, pacificamente gridato nelle piazze da milioni di persone: si cessi il fuoco e l'occupazione dei territori conferiti dalle Nazioni Unite ai palestinesi. La sospensione dei rapporti  con le istituzioni accademiche israeliane è adottato già da associazioni come l’American Anthropology Association, la British Middle East Studies Association, l’American Studies Association, l’Association for Asian American Studies, l’Association for Humanist Sociology, e altre. Se interrompere i rapporti con le istituzioni accademiche può servire a far pressione sul governo, in questo momento storico lo chiediamo con forza.

  

Lo ripetiamo con determinazione: l’interruzione dei rapporti accademici non significa l'interruzione del dialogo e l’isolamento dei colleghi e colleghe in Israele che continuano a lottare contro le scelte del proprio governo. La sospensione dei rapporti, come sottolineato nella petizione, riguarda l'interruzione di collaborazioni istituzionali. Il dialogo con i colleghi è una risorsa che coltiviamo attraverso la ricerca, le pubblicazioni e l’impegno comune. 

 

Numerosi articoli ed editoriali apparsi in questi giorni forniscono invece informazioni fuorvianti, quando non incendiarie, suggerendo che praticare forme di interruzione dei rapporti accademici sia "anti-israeliano" o addirittura antisemita. Non è anti-israeliano né tantomeno antisemita riconoscere che le università israeliane, in quanto istituzioni statali, non sono purtroppo luoghi aperti e caratterizzati da una cultura liberale e plurale come ci si aspetterebbe. La maggior parte delle università israeliane si sono rese complici e facilitatrici della violenza militare a cui assistiamo in questi giorni: dalla messa a punto di nuove armi e tecnologie di guerra, poi testate sulla popolazione palestinese, alle tecnologie di sorveglianza (spesso le stesse usate poi da altri regimi autoritari arabi per colpire gli attivisti per i diritti umani - suscitando lo sdegno di moltissimi accademici e giornalisti nel mondo - oppure utilizzate dai nostri governi in Europa) allo sviluppo di teorie volte a giustificare lo spossessamento della popolazione palestinese e l’uso della violenza contro di essa. Ciò mentre i colleghi e gli studenti palestinesi nei territori occupati sono sistematicamente privati del loro diritto a una vita accademica degna di questo nome. Solo nelle ultime settimane sono morte centinaia di studenti e di accademici a Gaza sotto le bombe.

 

Se non bastassero i fatti già menzionati, proviamo a vedere cosa è successo nell'ultimo anno. Consideriamo il caso dell'università israeliana di Ariel, costruita nell'insediamento illegale di Ariel in Cisgiordania. Secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale il trasferimento della popolazione civile in questi insediamenti costituisce un crimine di guerra. Ne consegue che l'Università di Ariel è complice di questo crimine. Nel 2022, la conferenza dei rettori d’Israele ha incluso l’università di Ariel al proprio interno, facilitando il processo di annessione illegale dei territori occupati attraverso la normalizzazione di un’istituzione accademica costruita come risultato di un crimine di guerra.

 

Inoltre, dal 7 Ottobre 2023 è in corso un’intensificazione della repressione, con sospensioni e licenziamenti nei confronti di studenti e docenti che chiedono un cessate il fuoco o esprimono solidarietà alla popolazione civile palestinese. La professoressa Nurit Peled (David Yellin Academic College of Education, premio Sakharov per la Libertà di Pensiero nel 2001 dal Parlamento Europeo), la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian (Hebrew University) e il professor Uri Horesh (Achva Academic College) sono stati sanzionati (Horesh licenziato) per le loro posizioni critiche del governo Netanyahu.

 

Inserire questa richiesta nel contesto di un’ampia e decennale mobilitazione accademica a livello globale, come abbiamo fatto, e sfatare il mito delle università israeliane come luoghi di sole libertà, emancipazione e di giustizia, è essenziale per una migliore comprensione delle nostre richieste. Soprattutto, vogliamo essere di aiuto ai colleghi e alle colleghe israeliani e palestinesi, che dentro le università israeliane si mobilitano per la libertà e giustizia di tutti.


Comitato Promotore Accademia Italiana per il Cessate il Fuoco  


Commenti

Post popolari in questo blog

Appello da parte della comunità accademica e dei centri di ricerca

Ilan Pappé sul boicottaggio accademico